martedì 9 dicembre 2008

Cenere (un’amicizia in fumo)

Quando Veronica mi si presentò a casa, io ero impegnato ad esercitarmi con i cerchi di fumo. A vederla, lì sul pianerottolo, avrei tanto voluto chiudere la porta e fingere che non ci fosse nessuno, ma la invitai ad entrare ottemperando a regole di cortesia cui non sono mai riuscito a venire meno. Non appena entrò, cominciò da subito a parlare di quanto la mia vita stesse andando allo sfascio, del fatto che dovessi riprendere ad uscire, che dovevo smetterla di non rispondere al telefono e, soprattutto, dovevo farla finita con le sigarette.
«Cazzo», disse andando in cucina e spalancando la finestra. «All’inferno troveresti un’aria più pulita», e agitava le braccia nell’aria come a scacciare un nugolo di mosche.
Non ero affatto in vena di ascoltarla. Avrei voluto farla tacere, riuscendo con una sola parola a demolire tutte quelle fastidiose certezze che si portava dietro come un mazzo di chiavi, stando bene attenta a farlo tintinnare. Ma considerando il suo impegno, l’impresa mi parve tanto ardua da non poter far altro che desistere.
«Tu non stai bene», disse guardandomi e scuotendo la testa, con le mani puntate sui fianchi.
«Come fai a dirlo con tanta certezza?», le chiesi.
«Si vede», rispose.
Veronica era convinta di riuscire a determinare con un solo sguardo la condizione esistenziale di qualsiasi essere vivente. A partire dagli organismi unicellulari. E si era preposta come missione quella di salvarli tutti.
«Devi riprenderti, cazzo», disse. «Sei pallido da far schifo».
Lei vedeva che ero pallido da far schifo. Io, invece, vedevo solo la sua figura nera nel contorno della finestra e il profilo dei capelli illuminato da un bagliore così timido da sembrare equivalente al mio entusiasmo.
«Preparati che usciamo», disse d’un tratto.
«Dove andiamo?», le chiesi.
«In giro, a prendere aria. Forza».
Provai ad opporre un’ostinata resistenza al suo ordine, ma lei era tanto sicura di spuntarla che, alla fine, mi venne meno anche il gusto di contraddirla per principio.
Guardai il posacenere sul tavolo della cucina, colmo di sigarette fino all’orlo. Spensi quella che avevo in mano.
«Ok», le dissi. «Vado a fare una doccia. Aspettami».
Mi alzai con una certa indolenza. Andai in bagno, chiusi la porta e mi sedetti sulla tazza del cesso. Accesi un’altra sigaretta, chiusi gli occhi e cominciai a fare cerchi di fumo poggiando la testa al muro.
D’improvviso, sentii la porta d’ingresso sbattere con violenza. Aprii gli occhi, uscii e mi accorsi di aver passato l’ultima ora della mia vita chiuso in bagno a dormire sul cesso. Di Veronica mi rimase un vaffanculo scritto con la cenere sul tavolo della cucina.
D’altro canto, io non ho ancora smesso di fumare.


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