giovedì 18 dicembre 2008

Amarcord - Dialoghi con Stè #14

Stè mi ciondola per casa, annoiato. D’un tratto:
«Andiamo a citofonare al prof di matematica?», mi dice.
«Stè, lo facevamo a quindici anni…», gli dico.
«E allora?», mi dice.
«Ne abbiamo trenta e passa», gli dico.
«Dici che siamo troppo vecchi per queste cose?», mi dice.
«Dico che non abbiamo più il fiato per scappare via», gli dico.
«Hm… hai ragione», mi dice.
«Già», gli dico.
«…».
«…».
«Però ci ho lo scooter», mi dice.
«Prendo il cappotto», gli dico.


lunedì 15 dicembre 2008

Moquette

Andy era seduto in poltrona, un bicchiere di gin in una mano e una sigaretta nell’altra. Osservava da ore una macchia scura sulla moquette quando il telefono squillò. Si voltò lentamente a guardarlo, senza decidersi a rispondere. Poi, a fatica, si alzò. Vacillando, urtò un tavolino su cui era poggiata una bottiglia vuota. La bottiglia oscillò fino a cadere.
«Pronto?».
«Andy… Sono io, Lisa».
«…».
«Andy?».
«…».
«Andy… Ascolta, mi dispiace. Ho appena saputo di tuo fratello. È terribile, io… Come stai?».
«…».
«Ascolta Andy. Io non ho parlato, non ho detto nulla. Se posso fare qualcosa, se posso fare qualcosa dimmelo e…».
Andy mise giú il ricevitore. Rimase per un po’ con la mano poggiata al telefono, la testa china e gli occhi chiusi. Sentiva una fitta alla tempia destra. Tornò a sedersi e scolò l’ultimo dito di gin, spense la sigaretta e riprese a fissare la macchia scura sulla moquette.
Quella mattina, al funerale di suo fratello Raul, Andy si era ritrovato a contare i tonfi della terra che i becchini lanciavano sulla bara. Fra la gente assiepata intorno alla fossa, aveva incrociato gli occhi di sua cognata che tentavano di nascondere l’imbarazzo e la vergogna dietro al dolore del lutto. A vederla, sentí aleggiare tutt’intorno un vuoto profondo, buio come la fossa in cui stavano seppellendo suo fratello.
Era tornato a casa, con il cielo che diventava un fragore nero di vento e pioggia, si era messo in poltrona e aveva cominciato a bere fissando la macchia sulla moquette, un alone rugginoso poco discosto dal tavolino.
«Vi ho visti», aveva detto Lisa il giorno prima che Raul morisse.
Andy era rimasto in silenzio a guardarla.
«Io…», aveva balbettato.
Nelle orecchie sentiva un turbinio di suoni bassi che rimbombavano fin dentro la testa.
«È la moglie di tuo fratello, per dio», aveva detto Lisa.
Andy si era avvicinato prendendola per un braccio.
«Ascolta…», era riuscito a dire.
Lisa lo aveva spinto ed era corsa via, lasciandolo immobile al centro della stanza. Il mondo intero si era ridotto a un grumo di sensazioni incomprensibili.
Il giorno seguente, sua cognata aveva telefonato in lacrime dicendogli che Raul era morto. Aveva scoperto tutto e si era sparato un colpo alla testa. A quella notizia, Andy vide la stanza farsi d’una consistenza lattiginosa. Sentí le forze scivolargli via e cadde sbattendo la testa sullo spigolo del tavolino.
Svenne, e quando riaprí gli occhi la prima cosa che vide fu la moquette intrisa di sangue.


sabato 13 dicembre 2008

In loving memory

Quando mia madre morí, per me fu una festa.
Io avevo quattro anni, ero a casa della nonna e c’era tanta gente e tutti mi sorridevano e mi prendevano in braccio, mi davano tanti baci, mi facevano le smorfie e il solletico e io ridevo sempre.
Mia nonna aveva gli occhi rossi e gonfi e io capivo che erano rossi e gonfi perché aveva pianto.
«Perché piangi?», le chiedevo.
E lei mi diceva che le faceva male la pancia e di non preoccuparsi e allora io non facevo piú domande che anche a me a volte aveva fatto male la pancia e avevo pianto. Cosí ritornavo fra tutta quella gente e tutti mi davano tante attenzioni come non avevano mai fatto prima: c’era chi mi accarezzava la testa, chi mi pizzicava le guance o mi dava un bacio e chi mi stringeva forte.
Quella mattina mia zia mi portò in girò a vedere le vetrine con i festoni del Natale che a me piacevano tanto le lucine colorate. Mi comprò un cornetto con la cioccolata e dopo averlo mangiato mi pulí la bocca tutta sporca di cioccolato e mi disse sorridendo che ero un pasticcione e a me questa cosa faceva ridere.
«Pasticcione!», mi diceva e io ridevo.
Poi mi prese in braccio facendomi saltellare e ripetendo «Hop! Hop!» e mi diceva che ero un cavaliere fortissimo.
Quando tornammo a casa c’era ancora tanta gente. E tutti cominciarono a venirmi incontro e di nuovo ad accarezzarmi i capelli o a darmi i baci. Solo che non mi baciavano come le altre volte che mi davano mille baci di fila, ma mi davano un bacio lungo e caldo e anche quando mi pizzicavano le guance non le pizzicavano forte come le altre volte che a me quasi faceva male, ma mi davano un pizzicotto leggero che quasi non si sentiva.
Io correvo di stanza in stanza, lí a casa di mia nonna e tiravo fuori i miei giocattoli e giocavo con tutti quei grandi e mi sembrava impossibile che loro non si annoiassero mai, che le altre volte dopo un po’ che giocavano con me, i grandi, poi dicevano «adesso basta». Quel giorno invece nessuno disse «adesso basta» e tutti videro le mie costruzioni e i miei trenini, la mia spada da cavaliere e il mio mantello, e tutti giocarono con me.
Verso sera cominciai a chiedere dove fosse la mia mamma ma nessuno mi rispondeva. Di giocare non avevo piú voglia, invece tutti gli altri volevano continuare a costruire castelli o a fare cavallo e cavaliere. Ma io volevo la mia mamma e nessuno mi diceva dove fosse che era un giorno intero che non la vedevo. Allora cominciai a stare in silenzio, seduto a terra, col mio mantello da cavaliere e la mia spada di fianco, a costruire un castello con le costruzioni e nessuno badò piú a me.
Poi un signore mi chiese se volevo giocare con lui e io dissi di no, che volevo mia mamma e lo dissi quasi in silenzio che l’avevo già detto tante volte e tante volte mi era stato risposto che mamma sarebbe arrivata. Questo signore, allora, mi disse che mamma era partita e sarebbe stata via per un po’ di tempo ma io dissi che non era vero, che la mia mamma non sarebbe mai partita senza darmi un bacio, e ogni volta che andava via mi dava sempre un bacio e mi diceva di fare il bravo e di non far arrabbiare la nonna. Ma quel signore mi disse che forse si era dimenticata perché andava di fretta e io urlai che non era vero e urlai che lui era un bugiardo a dire quelle cose e urlai che la mia mamma mi aveva sempre detto che le bugie non si dicono e mi aveva sempre dato un bacio prima di andare via e poi cominciai a piangere.
Allora arrivò mia zia e mi prese in braccio e io cominciai a piangere ancora di piú e a dire che volevo la mia mamma, che non mi aveva dato un bacio prima di partire e che si era dimenticata. Mia zia mi portò fuori, in balcone, dove faceva freddissimo e mi mise intorno una sciarpa nera grandissima e calda.
Io le chiesi dove era andata mamma e lei mi disse che era partita per un viaggio lungo, per un motivo importantissimo, che era dovuta andare in un posto in cui c’erano tanti bambini a cui nessuno dava mai un bacio e gli diceva di non dire bugie e di fare i bravi e che era dovuta partire di corsa senza salutare, ma aveva detto a lei, alla zia, di darmi un bacio e di dirmi di fare il bravo e non dire bugie.
Ma io dissi che era la mia di mamma e che poteva andarci qualcun altro in questo posto e che non era giusto e volevo vederla. Mia zia, allora, mi disse che la potevo vedere ogni volta che volevo e indicò un puntino luminosissimo in mezzo al cielo tutto nero e mi disse che quella era la mia mamma e che mi stava guardando, mi salutava e mi mandava tanti baci. E cosí, io, con la mano davanti alla bocca, cominciai a lanciare tanti baci alla mia mamma e a salutarla con la mano e a gridare «Ciao mamma!».
Poi vidi che mia zia cominciava a piangere.
«Anche a te fa male la pancia?», chiesi.
E lei mi disse di no, che mia zia le bugie non le aveva mai dette.


giovedì 11 dicembre 2008

Aut-Aut - Dialoghi con Stè #13

Io e Stè discettavamo tranquillamente sulla relazione fra Matrix, Kierkegaard e il principio logico del tertium non datur quando è arrivata Cà in lacrime.
«Cos’è successo?», le dice Stè.
«Ho trovato dei messaggi sul suo telefonino…», gli dice Cà.
«E...?», le dico.
«Erano indirizzati ad un’altra donna», mi dice.
«Ah… e che pensi di fare?», le dice Stè.
«Non lo so. Lui ha provato a spiegarmi… ha detto che vuole riprovare…» gli dice Cà.
«E tu?», le dico.
«Io… io, non lo so… non me la sento di stare con una persona che mi ha tradita», mi dice.
«Credo che i termini della questione siano da porre diversamente», le dice Stè.
«Che vuoi dire?», gli dice Cà.
«Già... qui non si tratta semplicemente di un tradimento», le dico.
«E cosa sarebbe?», mi dice.
«Lasciare dei messaggi compromettenti in memoria è una leggerezza imperdonabile», le dice Stè.
«E quindi?», gi dice Cà.
«Quindi dovresti chiederti, piuttosto, se puoi vivere al fianco di un cretino o, nella migliore delle ipotesi, di uno molto distratto».


Fosforo - Dialoghi con Stè #12

Stè mi si piazza sul divano.
«È da un po’ che ho problemi di memoria, non riesco a ricordare le cose...», mi dice.
«Fosforo Stè. Hai provato con il pesce?», gli dico.
«Sì, ma poi mi puzzano i capelli», mi dice.
«Devi mangiarlo idiota, non strofinarlo», gli dico.


Tredita - Dialoghi con Stè #11

La prima volta che Tredita vide l’amore fu in una stanza dell’Odeon, nei pressi della stazione centrale.
Era stato suo zio a portarlo lì, caricandosi dell’onere di traghettare quel nipote figlio di NN nell’età adulta, come suo padre aveva fatto con lui e suo nonno ancora prima. Tredita si era piegato alla volontà dello zio con un senso di timore e curiosità, avviandosi all’appuntamento con la rassegnazione di chi è ormai cosciente dell’inevitabile e con la consapevolezza che, a causa di quella malformazione che si portava dietro dalla nascita, difficilmente qualcuna si sarebbe avvicinata a lui se non per soddisfare un macabra curiosità.
Quando giunse all’Odeon, Tredita si inerpicò per piani e piani, fra pianerottoli con la moquette consumata e dalla poca luce, proseguendo con lentezza per non «sprecare il fiato» come insisteva quel benefattore dello zio. Quando fu in cima – a quel piano che gli habitué non senza un certo gusto per l’iperbole chiamavano «il settimo cielo» – Tredita riuscì appena a guardarsi le scarpe e a tentare di raccogliere il coraggio prima di varcare quella soglia che già aperta lo attendeva.
E fu lì, su un letto sfatto dalle lenzuola grigie, mentre da una sigaretta aspirava fumo con due labbra rubino, stringendola tra dita ingiallite e dalle unghie mal smaltate che Tredita vide l’amore: grande, morbido, con un sorriso accondiscendente e due occhi piccoli che luccicavano fra le fessure delle palpebre. E quell'amore l’accolse con benevolenza e l’accudì e con pazienza lo condusse a quella riva che noialtri eravamo ben lontani dal solo supporla, e che una volta raggiunta avrebbe consentito soltanto di guardare l’altra parte senza più toccarla.
Tredita conobbe l’amore che non guardò con disprezzo o repulsione a quei due artigli che aveva al posto delle mani ma vi scivolò sopra con la compiacenza che si mostra nei confronti di un difetto di poco conto. Quell’amore, quella prima volta, accolse Tredita fra le braccia lasciando che si adagiasse con calma e facendo ciò che doveva con un silenzio che era più attenzione che abitudine e di cui Tredita fu grato. Fu un amore che non chiese nulla in cambio se non il dovuto, che non chiese rispetto pur sapendo di meritarlo e per questo lo ottenne, un amore che non volle comprensione ma solo onestà e che lasciò a Tredita il ricordo di una voluta grigia che s’alzava dal posacenere accanto al letto e che si perse poco prima di raggiungere il soffitto e subito dopo che quell’amore gli tenne il viso fra le mani a dargli un bacio in fronte per benedirlo.


M’arriva Stè a casa.
«Ohi, hai sentito di Tredita?», mi dice.
«No, cos’è successo?», gli dico.
«Di nuovo l’herpes, fratello», mi dice.
«E chi te l’ha detto?», gli dico.
«Gira voce all’Odeon», mi dice.


La Mara - Dialoghi con Stè #10


La Mara non era propriamente la ragazzina più bella della classe, con quel naso tondo un po’ all’insù che le dava un’aria porcina e i denti larghi che si premurava di nascondere tentando di sorridere il meno possibile, ma di certo era la più accondiscendente verso noi altri. Sarà forse che una precoce e deviata autoconsapevolezza l’aveva sin dalla pubertà indotta a credere che, se avesse mai voluto avere qualche chance, si sarebbe dovuta mostrare materna quanto disponibile verso quei ragazzi che un domani sarebbero diventati gli uomini ai quali riferirsi per consolidare la propria femminilità dichiarando, con ciò, inesorabilmente sconfitta la possibilità di un’elevazione morale e sociale.
Per questo, la Mara era l’unica che raggiungeva noi altri a casa del Picchio, nel cui cortile ci lanciavamo in estenuanti partite al gioco del «color color».
Il Picchio era l’unico in tutto il paese ad essere figlio di genitori divorziati, e questo gli dava una aura particolare, al mezzo fra la compassione e l’invidia. Viveva con la madre, e una sorella magra come uno spillo e imprigionata in un busto ortopedico che le costringeva ad avere sempre il viso leggermente alzato verso l’alto, in una piccola villetta in parte bisognosa di una decisa ristrutturazione, fornita di un piccolo cortile nel quale, quando la madre non era a lavoro, trovava posto un maggiolino volkswagen che sembrava non aver mai visto tempi peggiori.
In quel cortiletto, ben a riparo dagli sguardi che indiscreti potevano arrivare dai passanti, si consumavano i nostri patetici tentativi di iniziazione sessuale, con il beneplacito e la compiacenza della Mara che si immolava ai lubrici palpeggiamenti di noi altri vigliacchi che, troppo pavidi per un approccio diretto quanto inesperti per un approccio meno invasivo, sfruttavamo il gioco del «Color color» per abbrancarle le morbide cosce e, con guizzi di estrema trasgressione, palparle il culo.
Per far ciò, l’intesa fra noi altri era semplicissima: a chi fosse toccato dichiarare i colori da scovare e da toccare per evitare di perdere al gioco, avrebbe, dopo un paio di manche di riscaldamento, urlato i colori che corrispondevano all’abbigliamento della Mara.
All’epoca, e in quel gioco, i colori più gettonati furono due: «Color Blue Jeans» e, nel caso in cui la Mara avesse avuto una minigonna «Color calza di nylon».
All’urlo barbarico, ci ammassavamo ginocchioni, al pari di peccatori davanti la Madonna, ai piedi della Mara, sfiorandole cosce e polpacci mentre lei, con aria di accorata pazienza, incrociava le braccia e alzava gli occhi al cielo dissimulando una certa scaltrezza delle cose del mondo e proclamando la sua totale e imperturbabile estraneità al fatto.
Nessuno di noi si accorse mai che, durante quelle interminabili partite, Stè non sfiorò mai la Mara, preferendo spesso perdere al gioco pur di mostrare un certo malcelato rispetto nei riguardi di quella ragazza che, a dispetto di tutto ciò che noi altri potevamo presumere, lui amava e che avrebbe continuato ad amare negli anni a venire.

L’altro giorno mi arriva Stè a casa, contrito.
«Incredibile», mi dice.
«Cosa?», gli dico.
«Ieri ero su un sito di escort», mi dice.
«Stanco delle nigeriane o tenti il salto di qualità?», gli dico.
«Fanculo... Ho scovato la Mara», mi dice affranto.
«Ossignore, mi dispiace Stè», gli dico.
«Già», mi dice.
«Dev’essere stato un brutto colpo», gli dico.
«Cazzo... costa un botto», mi dice.


Al bar - Dialoghi con Stè #9

La Vanda la vedemmo la prima volta una sera che lo Scuro, a suo dire, era alle prese con il peggior gintonic della sua vita: fermo al bancone del bar del Gino, tentava di tenere a bada una studentessa di sociologia che gli parlava della taranta.
«Sì certo... il ragno», disse lo Scuro.
«Taranta, non tarantola, è un ballo», disse lei.
«Uh, ma non sei entomologa?», disse lo Scuro.
«Fanculo», disse lei.
Noi altri mocciosi eravamo accroccati intorno al videogioco dell’Asteroids come un nugolo di vespe all’alveare, alitando sul collo di Tredita che stava battendo tutti i record possibili e immaginabili, quando riconoscemmo l’inconfondibile inchiodata dell’Alfetta del Grillo.
«Arriva ‘u strunz», disse Tredita continuando a frantumare asteroidi con flemma diabetica.
Tredita non soffriva il Grillo da quando questi gli aveva ingravidato la sorella scaricandosene le responsabilità e lasciandola sola con la pancia e la vergogna. Il Grillo entrò nel bar del Gino con i capelli laccati più del solito, il borsello di cuoio sulla spalla destra, un vistoso gonfiore al basso ventre ma, soprattutto, con la Vanda che gli cingeva il fianco annunciata da un vezzoso aroma agrumato e da una sconveniente risata che fece tremolare la vetrinetta impolverata con l’esposizione dello Strega che il Gino teneva dietro al bancone.
Noi altri abbandonammo miseramente il sindattilo Tredita al suo tentativo di record, e cominciammo a dar di gomito indicandoci con un veloce e poco discreto gesto del mento il passaggio della Vanda, abbarbicata su un paio di zatteroni con la zeppa in sughero, cinta in un vestitino leggero a stampa floreale e con i capelli vaporosi da sembrare una nuvola rossa.
«Mamm’ ‘ro Carmine e quant’ è bbona», cominciò a ripetere il Pinna come fosse un mantra tibetano.
Al quinto mammoracarminèquantebbona, il Nicchia gli disse con ferma diplomazia: «Hai rotto il cazzo, Pinna», senza con questo distogliere gli occhi dalla Vanda. Intanto i gemelli Dash avevano assunto una comune espressione da idioti, Stè aveva fatto scivolare una mano nella tasca dei pantaloni, a Cestino aveva preso a tremare una gamba e il Pigna per la prima volta si era ammutolito.
Il Grillo e la Vanda si avvicinarono allo Scuro e il Grillo, con un sorriso giallino fece segno alla Vanda che lo Scuro era lui.
Quando la Vanda parlò, la sua voce scivolò lungo le schiene di noi tutti come un’unghia sulla lavagna.
«Tu devi essere lo Scuro», disse la Vanda.
«Già», disse lo Scuro.
«Qui dicono che fai lo scultore», disse la Vanda.
«Se lo dicono loro», disse lo Scuro.
Lo Scuro fingeva una partecipazione ridotta ai minimi termini per non concederle la soddisfazione del vantaggio visto che della Vanda si diceva che non perdonava nessun tipo di debolezza.
«Chissà che sai fare con le mani», disse la Vanda.
«Giusto il necessario», disse lo Scuro.
«Quanto ci metti a farmi un mezzobusto?», disse la Vanda.
Lo Scuro le guardò la scollatura e trattenne a stento un singulto che noi altri invece lasciammo liberamente aleggiare fra le volute di fumo che riempivano il bar.
«Il tempo che ci vuole», disse lo Scuro.
«E quanto mi costerebbe?», disse la Vanda.
Lo Scuro alzò lo sguardo a guardarla negli occhi e vide che la Vanda sorrideva con una malizia troppo manifesta per essere finta o dissimulata.
«Per questo ci possiamo mettere d’accordo», disse lo Scuro, e allontanò il bicchiere di gintonic.
La Vanda prese il bicchiere e se lo portò alle labbra stampandovi sul bordo due linee grosse e rosse che erano la sua bocca. Poi posò il bicchiere e disse: «Domani passo allo studio».
E se ne andò com’era venuta, cingendo il fianco del Grillo sempre più gonfio nelle parti basse.
Prima di uscire, la Vanda lanciò uno sguardo a noi altri mocciosi e, passandoci accanto, allungò una mano ad arruffare un cespuglio di capelli ricci e stopposi per poi lasciarla scivolare lungo la guancia e afferrare il mento del fortunato fra due dita.
«Ciao», mi disse sorridendo.
E io me ne venni nelle mutande per la prima volta in vita mia, con il Pinna che continuava a ripetere mammrocarminèquantebbona, lo Scuro ipnotizzato dal rossetto lasciato sul bicchiere, i gemelli Dash che ridevano come due beoti, Stè che moriva di invidia e Tredita che arpionava l’Asteroids scuotendolo forte e urlando: «Recòrd! Recòrd! Alla faccia ‘e chillu strunz’ cu’ l’Alfetta!».


Il Pinna - Dialoghi con Stè #8

Il Pinna lo chiamavamo così perché ce l’aveva grosso, dalle dimensioni che avrebbero fatto invidia a un adulto (e come compresi diversi anni dopo, a parecchi adulti). Ma all’epoca noi altri non ci facevamo poi tanto impressionare dalle dimensioni e il Pinna non era altro che un fenomeno da baraccone che per giunta perdeva sempre al gioco del «chi viene prima».
Nei pomeriggi afosi d’estate, al fresco di sottoscala in cantieri sequestrati, ci armavamo di giornaletti porno e davamo il via alla gara. Eravamo, allora, ancora ignari del fatto che la «durata» sarebbe stata una delle categorie in base alle quali, in un futuro prossimo, le donne avrebbero giudicato le nostre prestazioni e ciò che contava per ragazzini come noi che vivevano la scoperta del sesso (ognuno del proprio sesso) come una competizione sportiva era arrivare primi, raggiungere il traguardo davanti agli altri (o più lontano degli altri), eiaculare quanto prima quel po’ di semenza che i nostri testicoli acerbi riuscivano a produrre.
Il Pinna si calava calzoncini e mutande in un colpo solo e, spavaldo, lo afferrava facendolo roteare per poi smanettarlo convulsamente, sorridendo a gambe larghe e con una mano piantata su un fianco.
Spesso, annoiati dal troppo aspettare, esausti e con le mani appiccicaticce noi che avevamo già finito da un pezzo, lo lasciavamo solo con quell’enormità che si ritrovava fra le cosce e andavamo a giocare a pallone. Quando poi il Pinna ritornava, tronfio e soddisfatto, partivano gli sfottò.
«Non sei buono» lo apostrofavamo con cattiveria.
«Passa va’, fatemi giocare» diceva lui ridendo.
E in quella risata, a volte, a noi tutti sembrava di scorgere un segreto che il Pinna si premurava egoisticamente di tenersi ben stretto.
Quando anche il Pinna ci lasciò per andare a cercare fortuna altrove, a noialtri restò solo il ricordo di un eroe a metà: un essere mitologico tre quarti uomo e un quarto cazzo a cui non riuscì mai di vincere una gara a «chi viene prima».

Stè mi piomba a casa tutto sconvolto.
«Non ci crederai mai», mi dice.
«Cosa?», gli dico.
«Ho visto un porno», mi dice.
«Ci credo», gli dico.
«C’era il Pinna…», mi dice.
«No…», gli dico.
«Adesso si fa chiamare Paul Shark», mi dice.
«Grande», gli dico.
«Che cazzo di mito», mi dice.
«L’hai detto, fratello», gli dico.


I gemelli Dash - Dialoghi con Stè #7


Io bivaccavo sempre con i gemelli Dash.
I gemelli Dash erano chiamati così perché erano due albini bianchi bianchi, allampanati e con gli occhi da coniglio nascosti dietro lenti fotocromatiche dalla montatura in osso.
I gemelli Dash avevano un sorriso ebete, uguale e quando erano contenti saltellavano agitando le mani su e giù, insieme.
I gemelli Dash sapevano un sacco di cose e quando le raccontavano lo facevano passandosi le battute come stessero recitando e ascoltarli era uno spettacolo.
Io li osservavo e guardavo prima uno e poi l’altro e pensavo: «Ma questi chi cazzo sono?». «I gemelli Dash», mi rispondeva una voce misteriosa. E con questo stava a dire che erano due fuori dal comune, fosse solo per quel fenotipo recessivo che li rendeva già così eccezionali.
Io bivaccavo sempre con i gemelli Dash perché i gemelli Dash erano intoccabili. Per motivi che non ho mai capito, tutti li rispettavano e mai torcevano loro un capello. Frequentarli mi assicurava l’immunità e, da buon vigliacco qual ero e quale sono rimasto, la cosa mi tornava di comodo, considerato anche che fra tutti quelli che conoscevo io ero il meno capace a tirare cazzotti.
A quel tempo, la forza della retorica era qualcosa di ancora sconosciuto ad una mente semplice come la mia e le questioni andavano risolte solo in due modi: o scazzottavi o te la davi a gambe. Io optavo sempre per la seconda.
Furono i gemelli Dash a introdurmi nel fantastico mondo della mediazione e della diplomazia. A stare con loro imparai l’arte della persuasione verbale, farcendo i miei interlocutori di risonanze lemmatiche che spesso ottenevano il risultato di confondere l’avversario ponendolo in una situazione di cognitivismo deficitario. Voglio dire, in pratica non capivano più un cazzo e lasciavano perdere.
Dei gemelli Dash perdemmo tutti le tracce nel passaggio dalle medie alle superiori. Loro cambiarono città e non se ne seppe più nulla. Sparirono durante un’estate, senza dire nulla e senza nemmeno salutare noi altri. Semplicemente, non si videro più e noi non facemmo altre che registrarne la partenza e archiviarne l’assenza.
Da allora, per una sorta di osmosi data dalla mia continuata frequentazione con i gemelli Dash, tutti continuarono a non torcermi un capello nonostante fossi l’oggetto più appetibile delle rimostranze fisiche di ragazzini troppo presi dall’adrenalina e dalla voglia di menare le mani.
Ai gemelli Dash devo una adolescenza priva di braccia rotte e occhi pesti: gliene sarò grato per sempre.


L’altra sera passa Stè a casa tutto eccitato.
«Non sai cosa mi è successo!», mi dice.
«Hai avuto un’erezione?», gli dico.
«Fottiti... Ho incontrato i gemelli Dash!», mi dice.
«Ma no?», gli dico.
«Incredibile... Oh, sono rimasti bianchi uguali!», mi dice.
«Sparisci imbecille», gli dico.


Il Pigna - Dialoghi con Stè #6

A passare davanti quei campi disseminati di balle di fieno, piccole e tozze da sembrare da lontano biglie da schiccare con le dita, lì ci vedo sempre il Pigna in pantaloncini e canottiera, magro e abbronzato, con ai piedi un paio di scarpe da ginnastica smesse dal fratello e tutte consumate.
Il Pigna lo chiamavamo così perché una volta sua nonno, esasperato dalla sua eccessiva vivacità che trasfigurava spesso nella molestia, disse che avrebbe preferito avere una pigna nelle mutande piuttosto che il nipote nei paraggi.
E in effetti il Pigna era veramente molesto e mai che si riuscisse a farlo stare fermo. Correva come un folle e tutto faceva con una concitazione che sembrava gli venisse da un desiderio incosciente di voler fare tutto e la consapevolezza immatura che non ci fosse abbastanza tempo per farlo.
Era veloce, il Pigna, non c’è che dire. Veloce nel catturare le lucertole e i grilli, nel saltare sulle rane e nell’afferrare le galline. Veloce quando veniva spedito dalla madre a ritirare la spesa dal droghiere quanto nel recuperare i palloni che si perdevano fra fossati e canali di scolo. Veloce nel lavarsi, nel vestirsi e nel parlare.
Ed era allegro, il Pigna. Di un’allegria sempre contagiosa, fatta di risate e occhi meravigliati, di pacche sulle spalle e abbracci che noi altri accoglievamo sempre con un certo indugiato imbarazzo.
Non si fermava mai, il Pigna, e nulla lo fermava. Sembrava voler divorare il mondo - quello che per noi era allora il mondo - e non lasciarne per nessuno.
La natura era il suo regno senza che lui volesse esserne il re e di quella si beava senza la responsabilità di un monarca per i sudditi ma con uguale benevolenza o tirannia.
Correva, il Pigna, saltava, si arrampicava, faceva il bagno nel fiume ridotto a smunto ruscello d’agosto, costruiva nascondigli e cantava senza che fra tutte queste cose intervenisse mai un attimo di tregua.
«Dai! Dai! Forza!», diceva ogni volta che ci vedeva troppo stanchi o illanguiditi nell’ozio e nella sonnolenza.
«Che facciamo!? Che facciamo!?», ripeteva con quell’insistenza molesta che però a noi non irritava mai.
Perché alla fine questo voleva il Pigna: fare; placare un’ansia che inconsapevole si portava dentro; riempirsi gli occhi di cose, la bocca di sapori, il naso di odori e le orecchie di suoni. E poi mischiare tutto e meravigliarsi di quanto quel tutto fosse inarrivabile e impossibile e in quella meraviglia dimenticarsi di pensare che proprio per questo quel tutto era insopportabile a viversi.

L’altra sera è passato Stè.
«Da quando non vai a trovare il Pigna?», mi dice.
«Da quando l’hanno dimesso», gli dico.
«L’hanno dimesso tre anni fa», mi dice.
«Ecco, da tre anni», gli dico.
«Potresti passarci però...», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«Perché ne avrebbe a piacere», mi dice.
«Stè... Il Pigna nemmanco ci riconosce», gli dico.
«Vabbè, però che ne sai...», mi dice.
«Stè, riesce a parlare?», gli dico.
«No», mi dice.
«Si piscia ancora addosso?», gli dico.
«Sì», mi dice.
«Ecco, io il Pigna me lo voglio ricordare asciutto», gli dico.


Il Nicchia - Dialoghi con Stè #5

Il Nicchia guardava sempre le nuvole.
Per questo non lo facevamo mai giocare a pallone: si correva il rischio che all'improvviso si incantasse giusto in mezzo al campo, alzasse lo sguardo e si mettesse a osservare le nuvole.
Il Nicchia lo chiamavamo così perché suo padre faceva il becchino al camposanto.
Ognivolta che scavavano i morti, il Nicchia era lì a guardare. Si metteva da parte e guardava suo padre e gli altri becchini scavare la terra. Poi, quando suo padre si calava nella fossa per aprire la tomba, il Nicchia si avvicinava e guardava diritto giù.
Ne aveva visti di morti scavati, alcuni ancora in decomposizione, altri scheletri fatti. Quando noi gli chiedevamo qualcosa a riguardo, il Nicchia faceva sempre il vago e si metteva a guardare il cielo.
Un giorno arrivò al campetto, mi si avvicinò e disse: «Tua nonna sta bene».
Quella mattina avevano scavato mia nonna.
Io lo guardai senza dire nulla.
«Sta bene», disse il Nicchia. «L'hanno rimessa a posto».

Stè è stravaccato in poltrona da dieci minuti a guardarsi la punta delle scarpe e senza dire una parola.
«Stè?», gli dico.
«Eh», mi dice.
«Che hai?», gli dico.
«Te l'hanno mai raccontata da piccolo la storia che quando uno muore va in cielo?», mi dice.
«Eh», gli dico.
«Il Nicchia per questo guardava sempre le nuvole. Perché lui i morti li ha sempre visti sotto terra», mi dice.
«Il Nicchia... Quanto tempo è passato?», gli dico.
«Cinque anni», mi dice.
«Ah, quindi...», gli dico.
«Sì... L'hanno scavato ieri», mi dice.
«...».
«Sta bene, il Nicchia».


I baffi - Dialoghi con Stè #4

Stè s’è fatto crescere i baffi.
Dice che tutte le persone che hanno avuto «un certo peso» nella Storia portavano i baffi.
«Tipo?», gli dico.
«Hitler», mi dice.
«Hm... tutto bene Stè?», gli dico.
«E poi Stalin», mi dice.
«Stè?», gli dico.
«Marx...», mi dice.
«Marx aveva la barba Stè», gli dico.
«Groucho, idiota», mi dice.
«E poi?», gli dico.
«Nietzsche», mi dice.
«Hai finito Stè?», gli dico.
«E poi Monnalisa...», mi dice.
«Chi!?», gli dico.
«La Gioconda!», mi dice.
«Non mi sembra abbia i baffi», gli dico.
«Secondo Duchamp sì», mi dice.
«Ah be’...», gli dico.
«E poi Lenny Kilmister», mi dice.
«Overkill fratello!», gli dico.
«E anche Bergomi», mi dice.
«Bergomi non ha i baffi», gli dico.
«Ai Mondiali dell’82 ce li aveva», mi dice.
Poi Stè si guarda allo specchio con fare vanitoso.
«Come sto?», mi dice.
«Uguale a Frida Kahlo», gli dico.
«Dove ce l’hai il rasoio?», mi dice.
«Bagno. Armadietto a destra», gli dico.
«Vado», mi dice.


Il Guardia - Dialoghi con Stè #3

Il Guardia sparava come un cecchino.
Di lui si raccontava che era stato in missione in qualche paese lontano, che aveva ucciso un po’ di persone, che era stato ferito gravemente e che poi lo avevano congedato per una brutta storia. Insomma, del Guardia si diceva il necessario perché noi altri lo guardassimo con una certa riverenza.
Andava a sparare in un campo fuori paese, mirando a bottiglie vuote. Si diceva che lo facesse per scaricare la tensione, perché da quando era stato congedato non è che ci stesse poi molto con la testa. E di tanto in tanto lo si sentiva dar fuori di matto e urlare come un indemoniato qualcosa riguardo a una pensione di invalidità che era una miseria, a una lettera da scrivere al presidente della repubblica e al generale delle forze armate fino a quando la madre non chiudeva tutte le finestre e allora per pudore tutti facevamo finta di non sentire più nulla.
«Il Guardia c’ha i cazzi», dicevamo ogni volta che lo si vedeva caricare una cassa di bottiglie nel retro della macchina e partire.
Chi l’aveva visto sparare, giurava e spergiurava che il Guardia non mancava mai il bersaglio. E chi non l’aveva mai visto non aveva motivi per mettere in dubbio la voce.
Da un giorno all’altro poi del Guardia non s’è saputo più nulla: ha smesso di sparare e dar fuori di matto e s’è rintanto in casa e per anni nessuno l’ha più visto.

Ieri è passato Stè.
«Oh, indovina chi ho rivisto?», mi dice.
«La Madonna?», gli dico.
«Fottiti… Il Guardia», mi dice.
«E…?», gli dico.
«Aveva tutto il lato destro della faccia sfigurato», mi dice.
«E com’è?», gli dico.
«Dice che s’è sparato in bocca», mi dice.
«E pensare che non sbagliava mai un colpo», gli dico.


Cestino - Dialoghi con Stè #2

Cestino non è che fosse proprio tardo. Diciamo che ci metteva il tempo che gli abbisognava perché lui era uno che le cose le prendeva con calma. D’estate, quando s’andava a mare coi vespini, toccava dargli appuntamento un’ora prima per trovarlo in orario un’ora dopo.
Solo una volta fu puntale: quando il magrebino in fondo alla via - primo esemplare di una stirpe di immigrati che nel giro di un decennio avrebbe colonizzato tutta la strada - per poco non ci restava secco a causa di un infarto. Fu Cestino a salvarlo, proprio lui a cui avevano dato quel soprannome perché dicevano che ci aveva la testa piccola come un cestino.
«Moammè! Moammè!», cominciò a urlare quando vide Mohamed riverso a terra, vicino al portone che dava al basso dove aveva una stanza in affitto.
«Che t’ha preso Moammè?», provò a scuoterlo con le mani. Ma Mohamed non aveva nessuna intenzione di muoversi. E così Cestino corse a casa, si infilò nella cantina dove il padre stava facendo il limoncello, afferrò il genitore per un polso e urlando e scalciando lo portò da Moammè, come diceva lui. Il padre di Cestino capì la situazione (o forse non la capì del tutto ma fa nulla) tornò difilato a casa, prese l’850 fiat, tornò da Mohammed, lo caricò in macchina, lo portò in ospedale e Mohammed fu salvo.
Quando noi arrivammo coi vespini Cestino cominciò a raccontarci dell’accaduto.
«Cestì, non scassare le palle», gli dicemmo. «Salta sul vespino e statti zitto».
E Cestino saltò sul vespino e stette zitto tutta la giornata. Poi, quando tornammo a casa, si fece accompagnare dal padre con l’850 fiat in ospedale a trovare Moammè.

L’altro giorno mi imbocca Stè a casa.
«Ohi, sai chi hanno beccato?», mi dice.
«Tua sorella sulla provinciale?», gli dico.
«Vaffanculo... Hanno beccato Cestino», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«Te lo ricordi a Moammè?», mi dice.
«Eh», gli dico.
«L’ha ammazzato», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«E che ne so... diceva che i musulmani non ce li voleva vicino casa», mi dice.
«Ma se l’ha salvato lui dall’infarto», gli dico.
«Eh, ma quindici anni fa mica lo sapeva Cestino che Moammè era musulmano», mi dice.


Il Merlo - Dialoghi con Stè #1


Quando il Merlo bruciava copertoni io avevo dieci anni appena e stavo lì a guardare il fumo nero che si levava alto come una bestemmia.Poi vedevo il Merlo pisciare sulle fiamme e tentare di spegnerle quando ormai era impossibile farlo.
Alla fine si allontanava mogio con lo sguardo a terra, trascinando i piedi e scuotendo la testa.
Quando mi passava di fianco lo sentivo ripetere «Non è mica facile» come avesse bisogno di giustificarsi con me, un moccioso che non aveva un cazzo da fare se non stare lì a guardare copertoni bruciare.

L’altro giorno m’ha chiamato Stè.
«Oh lo sai ch’è morto il Merlo?», mi dice.
«E com’è morto?», gli dico.
«Di vecchiaia», mi dice.
«Mi dispiace», gli dico.
«Vabbè. Tu che dici, come va?», mi dice.
«Non è mica facile», gli dico.


L’Arcangelo (in memoria)

L’Arcangelo mi parlava della droga come una liberazione. Un gioco sublime che valeva tutte le candele. La dipendenza, la depressione, la solitudine, gli sguardi compassionevoli e compassati. Diceva che era l’unico modo per sentirsi davvero soli e davvero dio. E mica importavano l’astinenza e i crampi, ché tutto passava al solo sentire l’ago che deflorava per l’ennesima volta la pelle.
L’Arcangelo, per tutti noi cresciuti nella provincia denuclearizzata e degradata, era un esempio di titanismo quando nemmeno ancora conoscevamo la parola. Un angelo che conosceva il sublime come l’infimo, il tempo come il suo contrario e l’amicizia come solo l’amicizia. Spariva per mesi interi e ricompariva sempre più defunto. Negli occhi aveva una luce ogni volta più intensa che sembrava prendesse forza da tutto il resto del corpo, trascinato come un relitto. «La vita è un delitto», ripeteva aprendo le braccia sottili e accennando sorrisi sdentati che sapevano di sconfitte ai punti. Poi scrollava le spalle e diceva: «Non datevi pena». E spariva di nuovo.
L’ultima volta che lo vedemmo, pioveva. L’Arcangelo ci abbracciò con la leggerezza di un refolo freddo, ridendo alla pioggia e lasciando che rivoli gentili gli bagnassero i capelli biondo fieno. Non diceva mai che le cose gli andavano male ma solo che tra l’esserci e lo sparire quello che contava era il ricordo che si riusciva a lasciare. Quella sera ci parlò di un sogno che aveva fatto, di un posto che aveva visto. Disse che lì non faceva mai freddo e che c’era la luce. E non c’era bisogno di un ago, di polvere o di un laccio emostatico. «Io ci vado», disse. E sorrideva che era un bambino.
Il giorno dopo, in fondo alla via, di fianco al Cristo in croce in vicolo Ferrovia, trovammo scritto in rosso che la vita era un delitto e dell’Arcangelo non si seppe più nulla. Chi disse era morto, chi disse era vivo, chi scrollò le spalle e non disse più nulla.
E così dell’Arcangelo ci è rimasto il ricordo. Di chi vedeva dal basso più in alto di tutti. Di un’indole lieve che guardava le stelle e sognava di un posto pieno di luce. Il ricordo di chi ci ha strappato al marcire lento delle vene, trattenendoci al di qua di quella sponda nera che ci ostinavamo a volere passare. Il ricordo di un debito di salvezza che nessuno potrà ricambiare.
Adesso, a memoria dei tempi che furono, quando ancora esistevano partite a calcetto in strada e stracci di campagna non soffocati da orribili palazzine, resta la cappella votiva dell’Arcangelo in vicolo Ferrovia, dove ancora si legge «La vita è un delitto» e, aggiunto in basso da una mano pietosa, «senza movente».



mercoledì 10 dicembre 2008

Un amore

La stazione era deserta. Antonio e Chiara sedevano su una panchina all’ultimo binario.
«È stata una cazzata, non avremmo dovuto farlo», disse Antonio.
«Rilassati, ormai è andata», disse Chiara.
Antonio si alzò sbuffando. Intrecciò le mani dietro la nuca fissando un punto al di là dei binari.
«Siediti e stai tranquillo», disse Chiara lisciandosi i capelli.
«E se vengono a cercarci?», chiese Antonio.
«Anche se fosse, siamo maggiorenni e non possono fare niente».
«Io sono maggiorenne da un mese, Chiara…».
«Basta e avanza».
Antonio tornò a sedersi, puntando i gomiti sulle gambe e prendendosi la testa fra le mani. Chiara cominciò ad accarezzargli il collo.
«Dai», disse. «Andrà tutto bene, non preoccuparti».
«Almeno arrivasse ’sto cazzo di treno».
«È in ritardo, dai… Tranquillo».
Chiara prese una sigaretta dal pacchetto che aveva in borsa, l’accese e la passò ad Antonio. «Fuma, cosí ti calmi», disse.
Antonio prese la sigaretta e cominciò a tirare lunghe boccate. Scivolò un po’ in avanti, appoggiando la nuca allo schienale della panchina.
«Certo che fa davvero caldo», disse Chiara.
«Già. E non c’è un cazzo di nessuno».
«Tutti in ferie», aggiunse Chiara. «Tutti a godersi le vacanze».
«Le vacanze… Te le ricordi le nostre?», disse Antonio.
«Non erano niente di che».
«Io mi sono sempre divertito».
«Tu ti sei sempre divertito con poco», disse Chiara.
«Be’, meglio cosí…».
Chiara tirò fuori dalla borsa una flaconcino di smalto rosso. Svitò il tappo e cominciò a passare il pennellino sulle unghie della mano destra.
«Perché metti quello smalto?», chiese Antonio. «È da puttana».
«Mi sembra che la cosa a volte ti piaccia», disse Chiara continuando a mettere lo smalto.
Antonio non disse nulla. Si alzò di nuovo e cominciò a camminare lungo il binario. Si fermò ad un distributore automatico.
«Vuoi qualcosa?» urlò rivolto verso Chiara.
«Una coca!».
Antonio si frugò in tasca e tirò fuori gli spiccioli. Prese una coca e un sandwich. Il sandwich rimase impigliato nel distributore e Antonio faticò un poco per tirarlo fuori. «Fanculo», disse.
Tornò alla panchina e diede la lattina a Chiara.
«Mettila lí», disse Chiara indicando la panchina con un segno della testa. Era ancora occupata con lo smalto. Quando ebbe finito avvitò il pennello nel flaconcino e rimise tutto in borsa. Prese ad agitare le mani nell’aria e a soffiare di tanto in tanto sulle unghie.
Antonio lanciò via la sigaretta e tirò fuori il sandwich dal contenitore di plastica.
«Ne vuoi un po’?», chiese rivolto verso Chiara.
« No, grazie».
Rimasero in silenzio, lui a mangiare e lei a lasciar asciugare lo smalto.
Il caldo, giú in fondo ai binari, faceva tremolare l’aria. Antonio si incantò a guardare quell’oscillazione lattiginosa, indefinita e impalpabile.
Il rumore della lattina che si apriva gli fece battere piú volte le palpebre. Si voltò e vide Chiara che sorseggiava la coca. Un rivolo di bibita le era scivolato lungo una guancia. Antonio allungò un dito, lo passò sul mento di Chiara e se lo portò alla bocca per succhiarlo. Lei lo guardò e sorrise, poi gli si avvicinò poggiando la testa sulla sua spalla.
«Sono stanca», disse.
Antonio non rispose. Sentiva sulle labbra il sapore dolciastro della bibita. Ritornò a fissare il caldo tremolío in fondo ai binari.
«Che cosa faremo?», chiese dopo un po’.
«Vedremo, non lo so ancora», rispose Chiara.
Antonio chiuse gli occhi e tirò fuori aria dal naso.
«Cosa diranno mamma e papà?», disse ad un tratto.
«Che importa…», rispose Chiara.
«A te non importa mai d’un cazzo!», disse Antonio alzandosi dalla panchina.
«Cosa vuoi che ti dica?», disse Chiara. «Cosa vuoi che pensino? Saranno sconvolti, disgustati. Cosa vuoi che ti dica! Non lo so!», urlò Chiara.
Antonio si fermò al ciglio del binario e cominciò a piangere.
«Non metterti a frignare, adesso», disse Chiara. «Non c’è piú un cazzo da fare se non quello che stiamo facendo».
Nell’aria risuonò il fischio di un treno. Una voce registrata annunciò il passaggio di un diretto, avvisando di non oltrepassare la linea gialla.
«Spostati da lí», disse Chiara.
Antonio non si mosse. Il treno fischiò ancora, stavolta piú a lungo.
«Spostati da lí, cazzo!», urlò Chiara alzandosi. Prese Antonio per un braccio e lo tirò verso l’interno della banchina. Il treno sfrecciò loro di fianco.
«Lasciami!», urlò Antonio, divincolandosi dalla stretta.
Chiara lasciò andare la presa. Il treno passò allontanandosi.
«Stronzo», sussurrò e tornò a sedersi sulla panchina. Si sfregò le mani sul viso, sbuffando forte. Antonio la seguí, sedendosi al suo fianco.
«Scusa», biascicò.
Chiara gli passò un braccio intorno al collo e lo avvicinò a sé. Strinse il braccio come a volerlo soffocare, come quando, da bambini, giocavano alla lotta. Guardò Antonio, sembrava un bambino adesso. Ma era bello. E lei lo amava. Non poteva farci nulla. Le cose stavano cosí. Erano andate cosí. Lei amava suo fratello e suo fratello amava lei.
«Mi ami, vero?», disse Chiara sfiorandogli le labbra con un dito.
Antonio non rispose. Si liberò dall’abbraccio di Chiara e si discostò un poco.
«Mi ami, vero?»,tornò a ripetere Chiara, guardandolo negli occhi. «Vero che mi ami?».
Antonio non rispose. Si alzò e andò di nuovo al distributore. Si voltò e guardò Chiara, indeciso se le sembrasse piú bella di sempre o se fosse solo un’impressione. Se bella non lo era mai stata.
«Vuoi qualcosa?», disse.


martedì 9 dicembre 2008

Cenere (un’amicizia in fumo)

Quando Veronica mi si presentò a casa, io ero impegnato ad esercitarmi con i cerchi di fumo. A vederla, lì sul pianerottolo, avrei tanto voluto chiudere la porta e fingere che non ci fosse nessuno, ma la invitai ad entrare ottemperando a regole di cortesia cui non sono mai riuscito a venire meno. Non appena entrò, cominciò da subito a parlare di quanto la mia vita stesse andando allo sfascio, del fatto che dovessi riprendere ad uscire, che dovevo smetterla di non rispondere al telefono e, soprattutto, dovevo farla finita con le sigarette.
«Cazzo», disse andando in cucina e spalancando la finestra. «All’inferno troveresti un’aria più pulita», e agitava le braccia nell’aria come a scacciare un nugolo di mosche.
Non ero affatto in vena di ascoltarla. Avrei voluto farla tacere, riuscendo con una sola parola a demolire tutte quelle fastidiose certezze che si portava dietro come un mazzo di chiavi, stando bene attenta a farlo tintinnare. Ma considerando il suo impegno, l’impresa mi parve tanto ardua da non poter far altro che desistere.
«Tu non stai bene», disse guardandomi e scuotendo la testa, con le mani puntate sui fianchi.
«Come fai a dirlo con tanta certezza?», le chiesi.
«Si vede», rispose.
Veronica era convinta di riuscire a determinare con un solo sguardo la condizione esistenziale di qualsiasi essere vivente. A partire dagli organismi unicellulari. E si era preposta come missione quella di salvarli tutti.
«Devi riprenderti, cazzo», disse. «Sei pallido da far schifo».
Lei vedeva che ero pallido da far schifo. Io, invece, vedevo solo la sua figura nera nel contorno della finestra e il profilo dei capelli illuminato da un bagliore così timido da sembrare equivalente al mio entusiasmo.
«Preparati che usciamo», disse d’un tratto.
«Dove andiamo?», le chiesi.
«In giro, a prendere aria. Forza».
Provai ad opporre un’ostinata resistenza al suo ordine, ma lei era tanto sicura di spuntarla che, alla fine, mi venne meno anche il gusto di contraddirla per principio.
Guardai il posacenere sul tavolo della cucina, colmo di sigarette fino all’orlo. Spensi quella che avevo in mano.
«Ok», le dissi. «Vado a fare una doccia. Aspettami».
Mi alzai con una certa indolenza. Andai in bagno, chiusi la porta e mi sedetti sulla tazza del cesso. Accesi un’altra sigaretta, chiusi gli occhi e cominciai a fare cerchi di fumo poggiando la testa al muro.
D’improvviso, sentii la porta d’ingresso sbattere con violenza. Aprii gli occhi, uscii e mi accorsi di aver passato l’ultima ora della mia vita chiuso in bagno a dormire sul cesso. Di Veronica mi rimase un vaffanculo scritto con la cenere sul tavolo della cucina.
D’altro canto, io non ho ancora smesso di fumare.


Candeline

Dalla terrazza del Pincio si vedeva tutta Roma.
Adele e Federico erano appoggiati con le braccia alla balaustra di pietra, lo sguardo perso dentro al cielo.
«Allora», disse Adele, «cosa volevi dirmi?».
Federico restò a lungo in silenzio, poi fece un lungo respiro e si girò a guardarla.
«Mi vuoi sposare?», disse.
Adele abbassò gli occhi e sorrise.
«Sí», rispose.
Restarono entrambi in silenzio. Poi tornarono a guardare il cielo, rosso di tramonto.
«Cosa faremo dopo sposati?», chiese Adele all’improvviso.
«Non lo so», rispose Federico, «non ci ho pensato».
«Non è importante», disse Adele sorridendo.
«Già, non è importante» disse Federico e la guardò di nuovo negli occhi.
«Quando lo diremo agli altri?», le chiese.
«Domani», rispose Adele, «alla festa per il mio compleanno».
Federico non disse nulla e sorrise.
«È meglio andare adesso», disse Adele, «si sta facendo tardi».
«Andiamo», disse Federico e si incamminarono verso la macchina.


A casa di Adele era tutto pronto per la sua festa di compleanno. Lungo una parete del salotto c’era una tavola imbandita con al centro la torta. La madre di Adele si avvicinò alla torta per accendere le candeline e a ogni candelina accesa Federico cominciò a lanciare baci immaginari all’indirizzo di Adele.
Una... due... tre, contava tra sé Federico.
«Grazie per averli riaccompagnati a casa», sentí dire alle sue spalle. Era sua madre che parlava con il padre di Adele.
Quattro... cinque... sei...
«Si figuri, signora...», sentí dire dal padre di Adele.
Sette... otto... nove...
«... sono così dei bravi bambini».
Dieci.
Adele soffiò sulle candeline e tutti gli invitati cominciarono ad applaudire e urlare. Federico, invece, aspettava con impazienza che lei gli facesse un segno per avvicinarsi e dare la notizia del loro matrimonio.
«Cosa fai, Federico?», gli disse la madre. «Non vai a dare gli auguri a Adele?».
Federico si mosse lentamente e si avvicinò al tavolo, mentre la madre di Adele toglieva le candeline dalla torta, poggiandole sul tavolo.
«Auguri», disse Federico.
Adele gli si avvicinò per prendersi un bacio sulla guancia.
«Grazie», disse.
Federico la guardò negli occhi, le mani lungo i fianchi.
«Ci ho ripensato, sai», disse Adele. «Forse siamo troppo piccoli, abbiamo solo dieci anni».
Federico non disse nulla. Prese una candelina dalla tavola e cominciò a farla girare tra le mani. Tutto il nero dello stoppino gli impiastricciò i polpastrelli.
«Adesso vado a fare le foto», disse Adele. «Ci vediamo dopo».
Federico si allontanò dal tavolo e andò a sedersi su un divano.
«Cos’hai Federico?», gli chiese poco dopo sua madre, vedendolo in disparte e silenzioso.
Federico abbassò lo sguardo a guardare la candelina mezza consumata. La prese tra le dita e la spezzò in due.
«Niente», rispose. «Ho dieci anni».


Golden Virginia (hand rolling tobacco)


Fumo in faccia agli dèi
sigarette di lusso

(J. Laforgue)


Cartina, filtro, tabacco.
Stefano guarda Elide allontanarsi. La segue con lo sguardo e si dice che se solo si volta le corre dietro per abbracciarla. Lei Orfeo e lui Euridice e tutto al contrario. Ma Elide tira diritto, diritto come tirano i treni, sapete.
Sono a Colle Oppio. Un appuntamento improvvisato da Stefano perché ha questa cosa qui da dirle e non riesce più a tenerla dentro che gli costa una fatica del demonio. E allora pensa che forse è meglio dirla, che sia meglio dirla. Lui questa cosa se la sente dentro come un tumore, sapete. Un tumore benigno. La sente crescere giorno dopo giorno fino a quando decide di dirgliela. Di confessarsi.
Stefano ha visto Elide arrivare. Lui era lì che rullava una sigaretta – cartina, filtro, tabacco – e l’ha vista arrivare da via dei Fori Imperiali, quella strada enorme e lunga che a Roma porta da Piazza Venezia al Colosseo. L’ha vista da lontano e si è nascosto. Il tumore gli è scoppiato e non ha retto. L’ha seguita da lontano e l’ha vista fermarsi ad aspettarlo. Elide era in ritardo, un ritardo da poco. Stefano s’è nascosto ad osservarla. Lei si è accesa una sigaretta e intanto si guardava intorno, e di tanto in tanto guardava l’orologio. Stefano non ha retto e stava per andare via. Stava per telefonarle e dirle che c’era stato un imprevisto. Ma il tumore era già scoppiato, così. Una deflagrazione onnipotente e quando lei si è girata dalla sua parte si è fatto vedere e le è andato incontro.
Avrebbe voluto andarle incontro come nei film, sapete. Correndo a braccia aperte fino a poterla stringere forte ma si è limitato ad accelerare il passo e a sorridere.
Quando si sono trovati uno di fronte all’altra, dopo essersi salutati, lui stava per dirle ti amo, così. Ma qualcosa gli ha detto che forse non era il momento adatto e nemmeno le parole giuste. Allora le ha chiesto se le andava di sedersi e lei ha risposto di sì. Hanno trovato una panchina libera al fresco e si sono seduti e lì di nuovo cartina, filtro, tabacco.
Lei di tanto in tanto lo guardava e sorrideva e Stefano le vedeva gli occhi da dietro gli occhiali scuri. Poi lei gli ha chiesto cosa aveva di così urgente da dirle e gliel’ha chiesto sorridendo e lui – cartina, filtro, tabacco – avrebbe voluto di nuovo dirle ti amo, così. Ma poi ha pensato che non fosse ancora il momento adatto né le parole giuste e si è trattenuto. E allora ha cominciato un lungo giro di parole, un periplo di perifrasi, circumnavigando locuzioni e incisi e alla fine gli è venuta fuori una cosa un po’ triste. Una cosa che non era come ti amo, sapete. Una cosa bella razionale, spiegata per bene, con tutti i crismi, parentesi, rimandi, glosse e note a margine e alla fine di nuovo cartina, filtro, tabacco. Lei gli ha risposto nello stesso modo, articolando e discutendo le sue tesi, controbattendo, confermando o negando.
Se le avesse detto ti amo sarebbe stato tutto diverso. L’amore non andrebbe mai argomentato ma Stefano lì per lì non poteva saperlo, nemmeno lo immaginava. Pensava fosse meglio spiegarle per bene le cose, partire dall’inizio e arrivare alla fine passando per il mezzo, ma così le cose si complicano perché poi ci si perde in un mare di parole e si dimentica il punto fondamentale e cioè che c’è qualcuno che ama qualcun altro.
Ti amo, avrebbe dovuto dirle. Così, due parole da niente che non lasciano alternative, non scavano cunicoli, non nascondono passaggi segreti e invece parole su parole tanto che alla fine nemmeno le ricordava più.
Poi Elide si è alzata, ha salutato Stefano con un sorriso tra il dispiaciuto e l’imbarazzato ed è andata via e Stefano adesso e lì che la guarda, si dice che se solo si volta le corre dietro per abbracciarla e dirle ti amo, così.
Ma Elide non si volta e Stefano resta lì a Colle Oppio a fumare sigarette su sigarette, una dietro l’altra. Cartina, filtro, tabacco. Cartina, filtro, tabacco. Cartina. Filtro. Tabacco.
Quando finisce l’ultima, la lancia a terra e la pesta, ma la brace non vuole saperne di spegnersi. Allora rimane lì a guardarla consumarsi, spegnersi da sola.
Sapete, tutte le cose hanno un loro tempo.
Ti amo sarebbe stato meglio.


Mercalli - sticomitia del quotidiano


-Allora, come è andato il viaggio?
-Il viaggio bene.
-E il resto?
-Insomma...
-Insomma cosa?
-Eh...
-Che t’ha detto?
-Be’... Che non mi desidera.
-In che senso?
-In quel senso...
-Ahia.
-Già...
-Alquanto destabilizzante, direi.
-Decisamente destabilizzante… Ma dico, possibile che l’amore debba ridursi a una questione di genitali?
-Penso sia più che sufficiente. Che altro t’ha detto?
-Di apprezzare la sua sincerità.
-Questa è bella. Veramente bella.
-Trovi?
-Io non sopporto le persone che pensano che la sincerità sia la panacea a tutti i mali.
-Non dirlo a me...
-Essere sinceri è un modo facile e sbrigativo di alleggerirsi la coscienza, di non assumersi responsabilità.
-Già.
-A mentire ci vuole coraggio, oltre che memoria e fantasia e naturalmente una gran dose di altruismo. Un amore per il prossimo che oltrepassi il vangelo.
-Ma io adesso cosa dovrei fare?
-Ovvio: rassegnarti.
-Dici?
-Eh sì, dobbiamo tutti rassegnarci.
-Cioè?
-Cioè la storia si ripete, sempre e per chiunque: a te piace una tipa a cui non piaci e tu piaci a una tipa che non ti piace. Semplice.
-La fai facile. Io intanto sono disfatto.
-Non preoccuparti, tanto passa.
-Poco consolante, ora come ora.
-Già, ma terribilmente vero. Il tempo è un galantuomo, non dimenticarlo.
-Lo terrò presente.
-Cosa pensi di fare adesso?
-Non lo so, sono confuso.
-È normale, stai facendo i conti con il bradisismo esistenziale.
-Eh?
-Hai vissuto un terremoto nella tua vita.
-Cioè?
-Vedi... la vita procede per cataclismi, mi segui?
-Sì.
-Tutto scorre in modo lineare e preciso, si perpetuano quotidianità comprovate da anni e anni di esercizio quando all’improvviso un terremoto squarcia la quiete. La terra trema. Si apre. Dove c’era una prateria c’è ora un abisso, una distanza che a stento riesci a colmare con lo sguardo, e non c’è più nulla che sia riconoscibile come esserci da sempre, ci sei?
-Ci sono.
-Le cose prendono forme diverse, si accartocciano, si trasformano e ti ritrovi d’un tratto in un posto che non è più lo stesso per quanto sia sempre se stesso. Alla fine ti resta la consapevolezza di esserti salvato, il terrore di dover abbandonare le vecchie abitudini per poter riadattarti a ciò che ti si presenta davanti e la certezza che ciò che hai vissuto ti ha inevitabilmente cambiato.
-Hm...
-Tu sei stato l’epicentro e l’ipocentro di una scossa sismica esistenziale e adesso ne paghi le conseguenze sottoforma di un inesorabile bradisismo che ti provoca ansia.
-Però... cazzarola.
-Già, proprio cazzarola.
-Intanto che dovrei fare?
-Distrarti.
-Banale come risposta.
-Mica ho la pretesa dell’originalità. E poi, come diceva Hesse, non c’è nulla di più improduttivo del meditare sulla persona che si ama.
-Io non avevo intenzione di produrre nulla, semplicemente di consumare.
-Bah, è proprio vero, come disse il buon vecchio Henry Grymes: troppi sentimenti e troppe emozioni possono crearti grossi guai.
-E chi cazzo è?
-Contrabbassista. Storia incredibile. Scompare per decenni, lo danno morto fino a quando un suo fan, dopo anni di ricerche, non lo scova in un ospizio e lo riporta a suonare. In fondo, come vedi, c’è speranza per tutti.
-Fanculo.
-Ascolta, è inutile che te la prendi. Non c’è nulla da fare. Un amore non corrisposto è un amore inutile. Tu adesso devi pensare in termini pragmatici.
-Cioè?
-Cioè... a cosa ti serve una delusione d’amore? A un beneamato cazzo. Sei per caso un artista? Uno scrittore? Un musicista? Puoi forse convogliare questa sofferenza nei canali dell’intuizione e della creazione? Puoi eternarla in un sonetto, una canzone, un quadro? Cosa fai tu nella vita?
-Geometra.
-Appunto.
-Mi sento un rifiuto.
-Senti... il problema non sei tu e non è nemmeno lei. Il problema è che le cose vanno in un certo modo e basta. Una cosa o c’è o non c’è, punto. La virtù potrà anche stare nel mezzo ma l’amore non è una virtù. L’amore è un vizio e i vizi non conoscono mediazioni.
-Bella questa, è tua?
-Presumo di sì, non ricordo di averla letta.
-Cazzo, intanto io non riesco a non pensarci. Ce l’ho sempre davanti agli occhi.
-La memoria è fallace, mio caro. La dimenticherai un pezzo alla volta e scivolerai nella spirale dell’oblio.
-È così bella, sapessi...
-E cos’altro?
-Intelligente, molto profonda, sensibile, come fosse sempre in armonia con le cose e con il mondo.
-Ricorda: l’amore è quella condizione per cui l’uomo vede le cose come non sono. Nietzsche.
-Chi?
-Ni-ce.
-E che vuoi dire con questo? L’hai forse conosciuta, tu?
-No.
-E allora che cazzo dici?
-Mica c’è bisogno di conoscere tutti e tutto per farsi un’idea delle cose. Si può procedere per archetipi.
-E lei che archetipo sarebbe, scusa?
-L’archetipo della stronza.
-Sei un cinico.
-Realista.
-Cinico e senz’anima.
-Contento tu.
-Uff... non so proprio cosa fare.
-Te l’ho detto, rassegnarti. Stasera vieni con me ad una festa di laurea. Almeno ti distrai.
-Non sono in vena.
-Dai che magari rimedi qualcosa.
-No, non posso.
-Perché?
-No.
-Perché?
-Ti dico che non posso!... Ho un problema.
-Lei?
-Non proprio.
-E cosa?
-Eh... il frenulo.
-Cosa!?
-Il frenulo... mi si è spezzato. Per un mese non posso... be’, hai capito.
-E come cazzo ti si è spezzato?
-Troppa foga.
-Ommiodio! È orrendo.
-Doloroso, più che altro.
-Ma allora con la tipa ci sei andato a letto?
-No, non era lei.
-Cazzarola, ma non eri innamorato e in preda allo sconforto?
-Sì, ma le esigenze del mio affare sono cosa ben diversa dai tormenti del mio animo.
-Non posso che darti ragione. E poi, si sa, la vita non è mica una questione di cuore.
-Celine.
-Esatto... Ma quando ti si è... sì insomma, com’è andata?
-Preferirei non parlarne, non adesso.
-Ok, scusa... ma è una cosa orrenda. Orrenda e affascinante.
-Ripeto, volgarmente dolorosa.
-Ma comunque… con lei… come siete rimasti?
-Le ho detto che a questo punto era meglio non sentirci più.
-E lei?
-Se l’è presa. Ha detto che non posso lasciarla, che ha bisogno di me.
-T’avrà mica tirato la pippa dell’amicizia?
-C’era molto vicina. L’ho fermata in tempo.
-Scampata per poco.
-Già, per un pelo.
-Secondo me tu sbagli tattica.
-Illuminami.
-Ti presenti troppo da persona sensibile e comprensiva.
-E allora?
-E allora le donne vogliono i comprensivi per parlarci, e gli stronzi per scoparci.
-E secondo te, illustrissimo, cosa dovrei fare?
-Essere uno stronzo venato di comprensione.
-Cioè?
-Cioè un uomo profitterol.
-Eh?
-Dolce ma con le palle.
-Da dove l’hai presa questa?
-L’ho sentita in giro. Ma al di là della bassezza allegorica, la frase ha una sua valenza semantica molto marcata.
-Sarebbe?
-È vera.
-Tu saresti un uomo profitterol?
-No. Io sono un uomo millefoglie.
-Ah, davvero?
-Certo. Multistrato: duro cremoso, duro cremoso.
-E senti, premiata forneria marconi, la cosa funziona?
-Certo, sono o non sono fidanzato da tre anni?
-E mai nulla di male?
-Mai.
-E quella volta che lei è andata in Grecia con le amiche?
-Aveva bisogno dei suoi spazi.
-Hm... e quando ha fatto l’erasmus a Malta e non ti ha mai fatto una sola telefonata in nove mesi?
-Comunicazioni telefoniche difficili con l’estero.
-E quella volta che, mentre scopavate, t’ha chiamato con il nome del suo relatore della tesi?
-L’ha fatto per vedere se ero distratto. E comunque eravamo agli inizi. Gli inizi sono sempre difficili. Adesso le cose si sono consolidate.
-Tu ci credi davvero alle cazzate che dici?
-No. Ma il punto non è questo.
-E quale sarebbe, il punto?
-Il punto è che... sono un coglione innamorato.
-No. Tu sei l’archetipo del coglione innamorato.
-Ok, ma il punto non è questo.
-E quale sarebbe, il punto?
-Il punto è che io le mie convinzioni ce l’ho. Tu no. E senza convinzioni non si va da nessuna parte.
-Convinzioni? Io le tue le definirei più illusioni.
-Discrepanza lessicale di poco conto.
-Quindi secondo te io dovrei architettarmi tutta una serie di cazzate esistenziali e impostare la mia vita su quelle?
-Suppergiù. Vedi, il mondo va in un modo, tu vorresti che andasse in un altro. Considerato che non puoi modificare il corso delle cose, se non per un milionesimo di grado se proprio ti va di culo, non hai alternative: o ti crei delle convinzioni o t’ammazzi.
-Una via di mezzo?
-Non ne conosco.
-Ma così è tutto fasullo.
-Lo sarebbe ugualmente. E poi, non è tutto fasullo. Lo è solo ciò che non coincide con le tue convinzioni.
-Cioè?
-Allora, le sole cose ad essere vere sono le tue convinzioni. Qualsiasi cosa contrasti con le tue convinzioni è falso, quindi non è vero. Come tale non esiste.
-Capzioso.
-Utile, direi.
-Semplicistico.
-Aggiungerei funzionale.
-Stupido.
-Inevitabile, mio caro. E poi non si tratta di una cosa permanente. È solo uno stoccaggio di convinzioni da tirare fuori quando servono.
-Scusa... un messaggio.
-Chi è?
-Hm... è lei.
-Che dice?
-Che le manco.
-E poi?
-Che ha bisogno di me.
-E poi?
-Che vuole parlarmi.
-E poi?
-Niente.
-Ti farai mica incastrare?
-Certo.
-Certo?
-Ho le mie convinzioni, io.
-E quali sarebbero?
-Io sono convinto che lei mi ami.
-Ma se non ti desidera!
-Particolare irrilevante... almeno per il prossimo mese.
-Prossimo mese?
-Eh...il... coso... frenulo...
-Ah, dimenticavo.
-In un mese può succedere di tutto.
-Tipo?
-Tipo un cataclisma.
-Sei convinto?
-No.
-Bene.
-Ma a te un dubbio non viene mai?
-I dubbi rendono folli.
-Non è il dubbio, è la certezza che rende folli. L’ha detto Nietzsche.
-Uh, da quando leggi Nietzsche?
-L’ho letta in un cesso alla stazione, stamattina.
-Pensavo che nei cessi ci fossero solo numeri di telefono.
-A proposito, il numero della tua donna è per caso 349...?
-Sì, perché?
-Era nel cesso.
-…