giovedì 11 dicembre 2008

L’Arcangelo (in memoria)

L’Arcangelo mi parlava della droga come una liberazione. Un gioco sublime che valeva tutte le candele. La dipendenza, la depressione, la solitudine, gli sguardi compassionevoli e compassati. Diceva che era l’unico modo per sentirsi davvero soli e davvero dio. E mica importavano l’astinenza e i crampi, ché tutto passava al solo sentire l’ago che deflorava per l’ennesima volta la pelle.
L’Arcangelo, per tutti noi cresciuti nella provincia denuclearizzata e degradata, era un esempio di titanismo quando nemmeno ancora conoscevamo la parola. Un angelo che conosceva il sublime come l’infimo, il tempo come il suo contrario e l’amicizia come solo l’amicizia. Spariva per mesi interi e ricompariva sempre più defunto. Negli occhi aveva una luce ogni volta più intensa che sembrava prendesse forza da tutto il resto del corpo, trascinato come un relitto. «La vita è un delitto», ripeteva aprendo le braccia sottili e accennando sorrisi sdentati che sapevano di sconfitte ai punti. Poi scrollava le spalle e diceva: «Non datevi pena». E spariva di nuovo.
L’ultima volta che lo vedemmo, pioveva. L’Arcangelo ci abbracciò con la leggerezza di un refolo freddo, ridendo alla pioggia e lasciando che rivoli gentili gli bagnassero i capelli biondo fieno. Non diceva mai che le cose gli andavano male ma solo che tra l’esserci e lo sparire quello che contava era il ricordo che si riusciva a lasciare. Quella sera ci parlò di un sogno che aveva fatto, di un posto che aveva visto. Disse che lì non faceva mai freddo e che c’era la luce. E non c’era bisogno di un ago, di polvere o di un laccio emostatico. «Io ci vado», disse. E sorrideva che era un bambino.
Il giorno dopo, in fondo alla via, di fianco al Cristo in croce in vicolo Ferrovia, trovammo scritto in rosso che la vita era un delitto e dell’Arcangelo non si seppe più nulla. Chi disse era morto, chi disse era vivo, chi scrollò le spalle e non disse più nulla.
E così dell’Arcangelo ci è rimasto il ricordo. Di chi vedeva dal basso più in alto di tutti. Di un’indole lieve che guardava le stelle e sognava di un posto pieno di luce. Il ricordo di chi ci ha strappato al marcire lento delle vene, trattenendoci al di qua di quella sponda nera che ci ostinavamo a volere passare. Il ricordo di un debito di salvezza che nessuno potrà ricambiare.
Adesso, a memoria dei tempi che furono, quando ancora esistevano partite a calcetto in strada e stracci di campagna non soffocati da orribili palazzine, resta la cappella votiva dell’Arcangelo in vicolo Ferrovia, dove ancora si legge «La vita è un delitto» e, aggiunto in basso da una mano pietosa, «senza movente».



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