Cestino non è che fosse proprio tardo. Diciamo che ci metteva il tempo che gli abbisognava perché lui era uno che le cose le prendeva con calma. D’estate, quando s’andava a mare coi vespini, toccava dargli appuntamento un’ora prima per trovarlo in orario un’ora dopo.
Solo una volta fu puntale: quando il magrebino in fondo alla via - primo esemplare di una stirpe di immigrati che nel giro di un decennio avrebbe colonizzato tutta la strada - per poco non ci restava secco a causa di un infarto. Fu Cestino a salvarlo, proprio lui a cui avevano dato quel soprannome perché dicevano che ci aveva la testa piccola come un cestino.
«Moammè! Moammè!», cominciò a urlare quando vide Mohamed riverso a terra, vicino al portone che dava al basso dove aveva una stanza in affitto.
«Che t’ha preso Moammè?», provò a scuoterlo con le mani. Ma Mohamed non aveva nessuna intenzione di muoversi. E così Cestino corse a casa, si infilò nella cantina dove il padre stava facendo il limoncello, afferrò il genitore per un polso e urlando e scalciando lo portò da Moammè, come diceva lui. Il padre di Cestino capì la situazione (o forse non la capì del tutto ma fa nulla) tornò difilato a casa, prese l’850 fiat, tornò da Mohammed, lo caricò in macchina, lo portò in ospedale e Mohammed fu salvo.
Quando noi arrivammo coi vespini Cestino cominciò a raccontarci dell’accaduto.
«Cestì, non scassare le palle», gli dicemmo. «Salta sul vespino e statti zitto».
E Cestino saltò sul vespino e stette zitto tutta la giornata. Poi, quando tornammo a casa, si fece accompagnare dal padre con l’850 fiat in ospedale a trovare Moammè.
L’altro giorno mi imbocca Stè a casa.
«Ohi, sai chi hanno beccato?», mi dice.
«Tua sorella sulla provinciale?», gli dico.
«Vaffanculo... Hanno beccato Cestino», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«Te lo ricordi a Moammè?», mi dice.
«Eh», gli dico.
«L’ha ammazzato», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«E che ne so... diceva che i musulmani non ce li voleva vicino casa», mi dice.
«Ma se l’ha salvato lui dall’infarto», gli dico.
«Eh, ma quindici anni fa mica lo sapeva Cestino che Moammè era musulmano», mi dice.
Solo una volta fu puntale: quando il magrebino in fondo alla via - primo esemplare di una stirpe di immigrati che nel giro di un decennio avrebbe colonizzato tutta la strada - per poco non ci restava secco a causa di un infarto. Fu Cestino a salvarlo, proprio lui a cui avevano dato quel soprannome perché dicevano che ci aveva la testa piccola come un cestino.
«Moammè! Moammè!», cominciò a urlare quando vide Mohamed riverso a terra, vicino al portone che dava al basso dove aveva una stanza in affitto.
«Che t’ha preso Moammè?», provò a scuoterlo con le mani. Ma Mohamed non aveva nessuna intenzione di muoversi. E così Cestino corse a casa, si infilò nella cantina dove il padre stava facendo il limoncello, afferrò il genitore per un polso e urlando e scalciando lo portò da Moammè, come diceva lui. Il padre di Cestino capì la situazione (o forse non la capì del tutto ma fa nulla) tornò difilato a casa, prese l’850 fiat, tornò da Mohammed, lo caricò in macchina, lo portò in ospedale e Mohammed fu salvo.
Quando noi arrivammo coi vespini Cestino cominciò a raccontarci dell’accaduto.
«Cestì, non scassare le palle», gli dicemmo. «Salta sul vespino e statti zitto».
E Cestino saltò sul vespino e stette zitto tutta la giornata. Poi, quando tornammo a casa, si fece accompagnare dal padre con l’850 fiat in ospedale a trovare Moammè.
L’altro giorno mi imbocca Stè a casa.
«Ohi, sai chi hanno beccato?», mi dice.
«Tua sorella sulla provinciale?», gli dico.
«Vaffanculo... Hanno beccato Cestino», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«Te lo ricordi a Moammè?», mi dice.
«Eh», gli dico.
«L’ha ammazzato», mi dice.
«E perché?», gli dico.
«E che ne so... diceva che i musulmani non ce li voleva vicino casa», mi dice.
«Ma se l’ha salvato lui dall’infarto», gli dico.
«Eh, ma quindici anni fa mica lo sapeva Cestino che Moammè era musulmano», mi dice.
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