giovedì 11 dicembre 2008

La Mara - Dialoghi con Stè #10


La Mara non era propriamente la ragazzina più bella della classe, con quel naso tondo un po’ all’insù che le dava un’aria porcina e i denti larghi che si premurava di nascondere tentando di sorridere il meno possibile, ma di certo era la più accondiscendente verso noi altri. Sarà forse che una precoce e deviata autoconsapevolezza l’aveva sin dalla pubertà indotta a credere che, se avesse mai voluto avere qualche chance, si sarebbe dovuta mostrare materna quanto disponibile verso quei ragazzi che un domani sarebbero diventati gli uomini ai quali riferirsi per consolidare la propria femminilità dichiarando, con ciò, inesorabilmente sconfitta la possibilità di un’elevazione morale e sociale.
Per questo, la Mara era l’unica che raggiungeva noi altri a casa del Picchio, nel cui cortile ci lanciavamo in estenuanti partite al gioco del «color color».
Il Picchio era l’unico in tutto il paese ad essere figlio di genitori divorziati, e questo gli dava una aura particolare, al mezzo fra la compassione e l’invidia. Viveva con la madre, e una sorella magra come uno spillo e imprigionata in un busto ortopedico che le costringeva ad avere sempre il viso leggermente alzato verso l’alto, in una piccola villetta in parte bisognosa di una decisa ristrutturazione, fornita di un piccolo cortile nel quale, quando la madre non era a lavoro, trovava posto un maggiolino volkswagen che sembrava non aver mai visto tempi peggiori.
In quel cortiletto, ben a riparo dagli sguardi che indiscreti potevano arrivare dai passanti, si consumavano i nostri patetici tentativi di iniziazione sessuale, con il beneplacito e la compiacenza della Mara che si immolava ai lubrici palpeggiamenti di noi altri vigliacchi che, troppo pavidi per un approccio diretto quanto inesperti per un approccio meno invasivo, sfruttavamo il gioco del «Color color» per abbrancarle le morbide cosce e, con guizzi di estrema trasgressione, palparle il culo.
Per far ciò, l’intesa fra noi altri era semplicissima: a chi fosse toccato dichiarare i colori da scovare e da toccare per evitare di perdere al gioco, avrebbe, dopo un paio di manche di riscaldamento, urlato i colori che corrispondevano all’abbigliamento della Mara.
All’epoca, e in quel gioco, i colori più gettonati furono due: «Color Blue Jeans» e, nel caso in cui la Mara avesse avuto una minigonna «Color calza di nylon».
All’urlo barbarico, ci ammassavamo ginocchioni, al pari di peccatori davanti la Madonna, ai piedi della Mara, sfiorandole cosce e polpacci mentre lei, con aria di accorata pazienza, incrociava le braccia e alzava gli occhi al cielo dissimulando una certa scaltrezza delle cose del mondo e proclamando la sua totale e imperturbabile estraneità al fatto.
Nessuno di noi si accorse mai che, durante quelle interminabili partite, Stè non sfiorò mai la Mara, preferendo spesso perdere al gioco pur di mostrare un certo malcelato rispetto nei riguardi di quella ragazza che, a dispetto di tutto ciò che noi altri potevamo presumere, lui amava e che avrebbe continuato ad amare negli anni a venire.

L’altro giorno mi arriva Stè a casa, contrito.
«Incredibile», mi dice.
«Cosa?», gli dico.
«Ieri ero su un sito di escort», mi dice.
«Stanco delle nigeriane o tenti il salto di qualità?», gli dico.
«Fanculo... Ho scovato la Mara», mi dice affranto.
«Ossignore, mi dispiace Stè», gli dico.
«Già», mi dice.
«Dev’essere stato un brutto colpo», gli dico.
«Cazzo... costa un botto», mi dice.


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